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Il «pane del perdono» di Manzoni, e l'etica (eterna) della rinuncia
di Trifone Gargano

Rimbalza, ancora oggi, nelle pagine dei romanzi contemporanei, che pur sviluppano (o che intendono farlo) un'idea di ribellione sociale, ancorché fallimentare e velleitaria, il rinvio al "pane del perdono" di Manzoni. Accade, precisamente, nel recentissimo romanzo di Raffaele Nigro, Il dono dell'amore, edito nel 2024 per la casa editrice «La Nave di Teseo», che mette in scena una storia "pugliese", tra aspirazioni artistiche, sogni di rivoluzione politica, e... rinvii, appunto, a Manzoni, che di rivoluzionario non ebbe proprio nulla. Anzi. Tutt'altro. Modello sempiterno (borghese e catto-fascista) di menefreghismo e qualunquismo, con la sua etica della rinuncia, del perdono, e del disfattismo (individuale e sociale), del calcolo più bieco della convenienza e del tornaconto personale. Il "pande del perdono" di Manzoni, con esplicito rinvio allo scrittore lombardo, compare in una delle pagine finali (e magiche) dell'intero romanzo di Raffaele Nigro, come dono di un morto, il papà del protagonista e io narrante di tutta la storia, e si svolge in mare, nel corso di una visione allucinata, tra sogno e realtà (nel segno di quel realismo magico caratteristico della visione meridiana della vita e dell'uomo delle genti del Sud Italia, cui la letteratura di Nigro è sempre stata fedele):
La barca si accosta a noi, i rematori si sono fermati, ci salutano, mentre mio padre allunga la mano, mi offre una piccola forma di pane, un pane tondo, bello abbrustolito, e una lettera, mi sfiora e mi dà un brivido.
"Prendilo," dice, "è un pane speciale, un pane della speranza. Questo pane è un dono, è un favore che uno di noi può restituire al mondo, un dono d'amore, te l'ho detto." [...]
Sono perplesso e stranito, mi tocco la fronte, devo avere la febbre. Stringo questo pane, ne sento il profumo, un ricordo letterario, il pane del perdono di frate Cristoforo.
[R. Nigro, Il dono dell'amore, p. 416]
Ancora una volta, la visione pietistica e rinunciataria del "perdono", tipica di Manzoni, del Manzoni politico, compare, per lasciare il segno. Frate Cristoforo, nel Lazzaretto, invita i due giovani, eterni promessi sposi, a perdonare sempre e tutto nella vita, a non fare come tutti quei "provocatori", che, invece, da superbi, si ribellano, vogliono fare da soli, offendendo Dio (e leggi sociali):
«Qui dentro c'è il resto di quel pane... il primo che ho chiesto per carità; quel pane di cui avete sentito parlare! Lo lascio a voi altri: serbatelo; fatelo vedere ai vostri figliuoli. Verranno in un tristo mondo, e in tristi tempi, in mezzo a' superbi e a' provocatori: dite loro che perdonino sempre, sempre! tutto, tutto!»[dal cap. XXXVI]
L'insurrezione dei milanesi, che chiedevano, scandalo degli scandali, soltanto "pane e giustizia", viene raccontata da Manzoni, nelle pagine del suo romanzo, sul filo dell'ironia e del sarcasmo. Esattamente quello che di lì a qualche anno dopo, sempre a Milano, avrebbero chiesto gli affamati di sempre, contro i quali il generale Bava Beccaris avrebbe fatto sparare, ricevendone, poi, onorificenza dal re d'Italia, Umberto I di Savoia. Ebbene, nella pagina (sarcastica) di Manzoni, Renzo, appena arrivato in città, segue la traccia bianca della farina, e si mette subito nei guai, perché si lascia coinvolgere dai tumultuosi, dai ribelli, dai provocatori. Ecco qual è, dunque, l'errore commesso dal «buon villano» Renzo Tramaglino. Una volta giunto in città, si è lasciato coinvolgere nei tumulti. Per questa sua colpa, sarà, infatti, prontamente punito con il carcere. Manzoni deve "colpire" uno, per educarne cento, mille. Modello e simbolo imperituro di comportamento sbagliato. Mai schierarsi, mai lasciarsi coinvolgere in una contestazione, in uno sciopero, addirittura, in una sommossa popolare, in una ribellione canagliesca. Chi si azzardasse a farlo, come pur fece l'avventato Renzo, sceso in città dalla campagna felix e timorata di Dio, verrebbe immediatamente punito.
In chiusura di romanzo, nel Lazzaretto, Manzoni, quasi pre-annunciando il successivo e conclusivo «sugo» della storia, cioè, quel suo (efficacissimo) manifesto di qualunquismo civico e di opportunismo più bieco, sciorinato quasi per caso, alla buona, da Renzo e da Lucia, tira giù l'asso, e mete in scena il dono del "pane del perdono" da parte di fra' Cristoforo, personaggio positivo dell'opera, ai due (eterni) promessi sposi, mettendo sulle labbra del frate cappuccino l'etica della remissione e del perdono: «perdonare tutti e tutto, sempre». Questo è il (grande) messaggio che Manzoni affida ai giovani, a tutti i giovani lettori del suo romanzo, compresi i ragazzi di oggi, obbligati ancora a leggere quel romanzo, per via di vigenti disposizioni di legge del Ministero della Istruzione (oggi anche del Merito). Il buon cristiano, e il buon cittadino, deve «perdonare tutti e tutto, sempre». Al contrario, chi, invece, non perdona, sibila, di contro, Manzoni, come una serpe velenosa, grazie al non detto che è più eloquente del detto, si mette nei guai (esattamente come è accaduto a Renzo, a Milano, che ha seguito i rivoltosi, finendo in galera). Chi non si affida a Dio, chi non perdona tutto a tutti, chi si ribella e segue rivoltosi e sobillatori, finisce in galera!
L'etica remissiva (e cristianissima) del "perdono", nel romanzo di Manzoni, fa il suo ingresso già nel capitolo IV, con il racconto del "perdono" che Lodovico, il futuro frate Cristoforo, riceve da parte dell'ucciso:
...è morto bene, e m'ha incaricato – gli riferisce il frate cappuccino del convento nel quale Lodovico ha trovato rifugio, per sfuggire agli sbirri, che è accorso al capezzale del morente, per gli ultimi uffici – di chiedere il vostro perdono, e di portarvi il suo.
Dopo aver assassinato in duello il rivale, Lodovico, per un sentimento di pietà, e cambiando radicalmente vita, decide di prendere il nome del suo servo Cristoforo, morto, in quella stessa circostanza, per difenderlo:
Appena Lodovico ebbe potuto raccogliere i suoi pensieri, chiamato un frate confessore, lo pregò che cercasse della vedova di Cristoforo, le chiedesse in suo nome perdono d'essere stato lui la cagione, quantunque ben certo involontaria, di quella desolazione, e, nello stesso tempo, l'assicurasse ch'egli prendeva la famiglia sopra di sé [...]. Allora, fatto venire un notaro, dettò una donazione di tutto ciò che gli rimaneva (ch'era tuttavia un bel patrimonio) alla famiglia di Cristoforo.
Sarà proprio il fratello del morto, infatti, a donare a frate Cristoforo il "pane del perdono", nel giorno in cui frate, ormai novizio, si reca nel suo palazzo per chiedergli "perdono", buttandosi ai suoi piedi:
...chinandosi verso l'inginocchiato, «alzatevi,» disse, con voce alterata: «l'offesa... il fatto veramente... ma l'abito che portate... non solo questo, ma anche per voi... S'alzi, padre ... Mio fratello... non lo posso negare... era un cavaliere... era un uomo... un po' impetuoso... un po' vivo. Ma tutto accade per disposizion di Dio. Non se ne parli più... [...]. Fra Cristoforo, in piedi, ma col capo chino, rispose: «io posso dunque sperare che lei m'abbia concesso il suo perdono! [...] Oh! s'io potessi sentire dalla sua bocca questa parola, perdono!»
«Perdono?» disse il gentiluomo. «Lei non ne ha più bisogno. Ma pure, poiché lo desidera, certo, certo, io le perdono di cuore, e tutti...»
«Tutti! Tutti!» gridarono, a una voce, gli astanti.
Il pane è l'immagine simbolica eucaristica per eccellenza del corpo di Cristo, che viene offerto a tutti, per la remissione dei peccati. Ottenuto il perdono, e dovendosi mettere in viaggio, frate Cristoforo ottiene dal fratello dell'ucciso, il «pane del perdono», declinando l'invito a fermarsi ai festeggiamenti:
Io sto per mettermi in viaggio: si degni di farmi portare un pane, perché io possa dire d'aver goduto la sua carità, d'aver mangiato il suo pane, e avuto un segno del suo perdono.
Una volta in viaggio, frate Cristoforo, all'ora della refezione:
...mangiò, con una specie di voluttà, del pane del perdono: ma ne serbò un pezzo, e lo ripose nella sporta, per tenerlo, come un ricordo perpetuo.
Dunque, nel romanzo, il pane, a buon diritto, può essere considerato come uno dei protagonisti principali della storia, visto che lo attraversa dall'inizio alla fine, e vista l'importanza ideologica che l'autore gli assegna, simbolo e figura di perdono e redenzione. Nel capitolo IV, del resto, le due parole tematiche intorno alle quali gira tutta la narrazione sono, appunto, «pane» e «perdono».
E oggi? Beh, oggi, se ci fosse ancora qualche bocconcello di quel «pane del perdono», magari, grazie al lievito madre, trasmesso di mano in mano, da una Perpetua all'altra, grazie a quel pane, il buon cristiano Zelensky perdonerebbe quel gran birbone di Putin, il quale, a sua volta, da buon ateo, dovrebbe, innanzitutto, convertirsi alla vera fede, e, quindi, subito dopo, perdonare, a sua volta, quel ragazzotto sconsiderato di Zelensky. Trump, inoltre, dovrebbe pentirsi di aver sbeffeggiato in diretta mondiale quel provincialotto di Zelensky, che, comunque, sempre grazie a quel pane miracoloso, dovrebbe fare pubblica ammenda, per essere stato un tantino eccessivo, troppo ribaldo, in presenza del signore supremo dell'universo mondo, il presidentissimo Trump. Tutti i popoli della terra, infine, mangiando di quel pane, dovrebbero fare come i nanetti di Biancaneve, sentirsi affratellati, e, al mattino, uscire di casa fischiettando e canticchiando, per andare incontro al nuovo giorno con il sorriso stampato sulle labbra, in perfetta letizia.
Ma questa è un'altra storia... tutta da scrivere.
Sant'Anna educa alla lettura sua figlia Maria
di Trifone Gargano

Sant'Anna che insegna a leggere alla Madonna, sua figlia, è soggetto piuttosto raro, sia in pittura che in scultura. È nel vangelo apocrifo di Giacomo, scritto, con molta probabilità intorno al 150 d.C., e noto come Protovangelo di Giacomo, che si leggono le vite dei genitori della Vergine Maria, Anna e Gioacchino. Tale vangelo, benché apocrifo, cioè non accolto in nessun canone biblico, ebbe una larga diffusione a livello popolare, proprio perché espandeva i racconti (piuttosto striminziti) sull'infanzia di Gesù, contenuti, rispettivamente, nei vangeli di Matteo e di Luca. Il Protovangelo di Giacomo è il testo cristiano più antico nel quale si legge della verginità di Maria (prima, durante e dopo la nascita di Gesù). Inoltre, la tradizione cristiana ha attinto proprio da questo vangelo apocrifo alcune informazioni diventate popolari (come, per esempio, il dettaglio della grotta della natività; la presenza del bue e dell'asinello presso la mangiatoia dove fu adagiato Gesù appena nato; oppure, altre notizie riguardanti la nascita, l'infanzia e l'educazione di Maria di Nazareth). Nel capitolo quinto di questo Protovangelo, infatti, si legge della nascita di Maria, avvenuta quando Anna e Gioacchino avevano già un'età piuttosto avanzata, e della educazione della loro bambina. La raffigurazione di sant'Anna intenta a insegnare alla giovane Maria la lettura è una scena tutta intima, di vita domestica, familiare, che colpisce e commuove. In alcune di queste raffigurazioni, sia di area italiana, che europea, è pure presente, sullo sfondo, il padre di Maria, san Gioacchino, che assiste alla lezione, e che osserva in silenzio.
Mi piace riportare qui una di queste raffigurazioni di sant'Anna che educa alla lettura Maria bambina, da me recentemente visionata presso il Museo civico di Castelbuono (in provincia di Palermo), benché si tratti di opera piuttosto recente, del 1909, dell'artista locale Paolo Cicero, a testimonianza, in epoca contemporanea, di quanto sia duraturo e radicato il culto per sant'Anna (a Castelbuono, infatti, sant'Anna è patrona dell'intera comunità, festeggiata solennemente il 26 luglio, con san Gioacchino; da secoli, sin dal 1454, presso la Cappella Palatina, all'interno del castello, una volta appartenuto alla nobile e potente famiglia dei Ventimiglia, si conserva la reliquia santa del teschio di sant'Anna):

Alcuni studiosi si son chiesti che libri leggesse
la Madonna. E, soprattutto, come mai leggesse. Come mai, cioè, sua madre, Anna,
avesse pensato di insegnarle a leggere (e a scrivere), visto che nella tradizione
giudaica le donne non potevano accostarsi al libro sacro (alla Torah). Nelle
sinagoghe era vietato alle donne finanche di entrarvi. Nel Protovangelo,
si dà notizia della filatura come occupazione di Maria di Nazareth, non
della lettura (o della scrittura), svolta tra i 12 e i 16 anni, cioè, fino al
matrimonio con (l'anziano) Giuseppe, vedovo, vecchio, già padre di altri figli
e recalcitrante ad accettare di prendere in moglie quella ragazzina. Furono,
dunque, i pittori italiani (ed europei), specie quelli di età
umanistico-rinascimentale, a introdurre questa forzatura iconografica.
In Italia, furono i domenicani e i francescani, entrambi ordini predicatori, che fecero ri-scoprire, nella devozione popolare, il tema dell'infanzia di Maria, e, di conseguenza, anche il ruolo (importante) di sant'Anna che educa la ragazza, compresa l'educazione alla lettura (e alla scrittura). La fonte di tutta questa tradizione è da ricercare nella Leggenda aurea di Jacopo da Varagine, domenicano e arcivescovo di Genova (dal 1292 al 1298, anno della sua morte), proclamato beato dalla Chiesa cattolica. La sua legenda aurea, scritta in latino, ma diffusa in versioni volgarizzate, è una raccolta di vite di santi, che ebbe molta influenza, nei secoli successivi, sia sulla letteratura religiosa e devozionale, sia sulla produzione iconografica di molti artisti, che l'assunsero come fonte.

Nella Madonna del magnificat di Botticelli, del 1481 (attualmente, presso la Galleria degli Uffizi, a Firenze), la Vergine Maria, con Gesù bambino seduto sulle sue ginocchia, non solo sa leggere, ma sa pure scrivere (vene, infatti, raffigurata intenta a scrivere la frase «Magnificat anima mea Dominum», «l'anima mia magnifica Dio», che è una frase tratta dal Vangelo di Luca, e che Maria stessa pronuncia a santa Elisabetta, sua cugina e madre di Giovanni Battista).

L'Annunciata di Antonello da Messina, che è del 1475, riproduce Maria di Nazareth nel momento in cui, intenta a leggere un libro, riceve, tramite un angelo (che però non è in scena, non si vede), l'annunciazione del concepimento e della nascita di Gesù.

Nella Divina Commedia, Dante colloca sant'Anna nella candida rosa, di fronte a san Pietro, in contemplazione compiaciuta di sua figlia Maria, così come si legge ai versi 133-135 del canto XXXII del Paradiso:
Di contr' a Pietro vedi sedere Anna,
tanto contenta di mirar sua figlia,
che non move occhio per cantare osanna;
[Di fronte a san Pietro, vedi sedere Anna (madre di Maria), tanto compiaciuta nell'ammirare sua figlia, che non distoglie lo sguardo da lei per cantare l'Osanna;]

Infine,
in termini pop, suggerirei la canzone L'infanzia di Maria, di Fabrizio
De André, contenuta nell'album La buona novella (del 1970), come
approfondimento dell'argomento. Chi volesse ascoltarla potrebbe fare click sul
QR Code seguente:

Calura infernale e sabbione infuocato
di Trifone Gargano

In questi giorni di caldo infernale, con temperature al di sopra della media stagionale (ma molto, molto, al di sopra), sta circolando nel web una bella vignetta, che ritrae Dante, in rigorosa mise rossa, con tanto di ventaglio (rosso) e con sandaletti (rossi), che, disperatamente, si chiede dove si trovi la selva oscura, che a volerla non c'è mai, non si sa mai, cioè, quale direzione prendere per ritrovarla e ricavarne un qualche refrigerio (immaginando, ovviamente, che tale selva oscura sia pure una selva fresca fresca, dove trovare riparo, rispetto alla calura, visto che in essa, come il poeta ha precisato in un suo verso, il sole «tace»). Quella selva dalla quale, all'inizio del viaggio, Dante era scappato via (non senza qualche difficoltà e non senza qualche indecisione).
Il caldo di questi giorni, comunque, non può non ricordare, nella mente del lettore dantesco, il sabbione infuocato dell'Inferno, precisamente, quello del terzo girone del settimo cerchio, dove scontano la loro pena i violenti contro Dio, nella persona e nelle cose. Il racconto di questo girone occupa ben quattro canti dell'Inferno, dal XIV al XVII. Sabbione infuocato, su cui cadono lingue di fuoco che colpiscono i dannati. Il terzo girone di questo settimo cerchio, infatti, è suddiviso, a sua volta, in tre rispettive zone: nella prima, sono collocati i bestemmiatori (si tratta di violenti contro Dio nella persona di Dio); nella seconda, i sodomiti (violenti contro Dio nella natura); nella terza zona, gli usurai (violenti contro Dio nell'arte e nella professione).
Costoro, tutti, in base alla colpa di cui, in vita, si sono macchiati, adesso, sono esposti alla pioggia di fuoco sistemati in diverse posizioni. I bestemmiatori sono per terra, in posizione supina (per contrappasso: come in vita guardarono con superbia e con disprezzo Dio, ora sono obbligati a tenere la faccia verso il fuoco). I sodomiti sono costretti a camminare senza mai fermarsi (così come in vita furono lacerati da una irrefrenabile irrequietezza). Gli usurai, infine, che in vita accumularono le ricchezze altrui, qui, siedono rannicchiati lungo i bordi del girone.

Tra questi dannati, spiccano, per grandezza, Capaneo (ai vv. 43-75 del c. XIV), uno dei sette re di Tebe, che osò sfidare Giove, e che se ne sta in disparte, noncurante della pioggia di fuoco («giace dispettoso»). Virgilio, rimproverandolo, gli ricorderà che anche lì all'Inferno egli si contraddistingue per la superbia. Ma soprattutto è da ricordare, nel canto XV (ai vv. 31-96) Brunetto Latini, maestro di Dante a Firenze. Questi, non potendosi fermare, percorrerà un tratto di girone in compagnia di Dante, che si rivolgerà all'antico maestro con il capo chino (in segno di affettuoso rispetto). L'incontro con Brunetto Latini è molto cordiale, e si svolge all'insegna di un forte sentimento di reciproca amicizia. Dante spiegherà a Brunetto le ragioni del suo viaggio, e questi confesserà al poeta che lui aveva sempre creduto nel suo valore, e che se fosse stato ancora in vita, lo avrebbe difeso dall'invidia e dalla superbia dei fiorentini («ingrato popolo» e «gente avara, invidiosa e superba»). Dante rivelerà a Brunetto di conservare un ottimo ricordo di lui e, soprattutto, dei suoi insegnamenti, con una delle affermazioni più efficaci (da tweet contemporaneo) e sentenziose di tutto il poema: «m'insegnavate come l'uom s'etterna». Subito dopo, Brunetto Latini scappa via velocemente, per raggiungere la sua schiera, ricordando a Dante, per il gesto della corsa, coloro che a Verona corrono per il palio del drappo verde, ma non come un corridore qualsiasi, bensì come coloro che vincono:
Poi si rivolse, e parve di coloro
che corrono a Verona il drappo verde
per la campagna; e parve di costoro
quelli che vince, non colui che perde.


La Ludica Commedia di Silvio Berlusconi
a cura di Trifone Gargano
Più volte, nel corso della sua lunga carriera politica, Silvio Berlusconi ha fatto riferimento a sé stesso come all'«uomo della Provvidenza», per la nostra Italia, alludendo, in questa auto-definizione, alla profezia dantesca del «veltro», contenuta nel canto primo dell'Inferno:
[...] infin che 'l veltro
verrà, che la farà morir con doglia (vv. 101-02)
con riferimento immediato alla «lupa» da sconfiggere, la terza bestia che Dante incontra sul suo cammino, e che gli sbarra la via, fino a farlo retrocedere nuovamente nella «selva oscura». Nelle parole di Virgilio, dunque, profetiche e oscure, il veltro rappresenta, appunto, l'intervento provvidenziale e salvifico di un qualcuno capace di liberare il mondo intero dalla cupidigia e dall'avidità, terribili mali che affliggono (da sempre) l'umanità. Nel corso dei secoli, più volte si è provato a identificare questo «veltro» con un personaggio storico ben preciso (laico e/o religioso che fosse), senza mai riuscirci del tutto, in modo cioè convincente. Come pure, a livello popolare e propagandistico, molti sono stati i leader politici che si sono auto-definiti, per la nostra (martoriata) nazione, uomini «della Provvidenza», nati per salvare l'Italia dai suoi mali. Tra questi, con il suo consueto tono ironico e canzonatorio (molte volte anche auto-canzonatorio e auto-ironico), lo stesso Silvio Berlusconi.
In questo mio intervento, scritto e pubblicato in forma di sincero omaggio all'uomo Silvio Berlusconi, nell'ora della sua morte, desidero ravvivare nella memoria dei più, una barzelletta dal tono dantesco, in quanto cioè viaggio (e permanenza) nei tre regni dell'aldilà, Inferno, Purgatorio e Paradiso, che lo stesso Berlusconi raccontò, qualche anno fa, all'interno di una cornice politica (per un convegno, cioè, di Forza Italia), riferita a sé stesso. Berlusconi, infatti, in questa barzelletta racconta di sé stesso che, una volta morto, va all'Inferno, e si accorge, ben presto, che lì non funziona nulla (non ci sono nemmeno martelli per mettere i chiodi, o altri utensili, e così via), e si dispera della cosa. Morale: nel giro di soli quindici giorni, Berlusconi si tira su le maniche, si mette al lavoro e sistema tutto. Visto il gran successo, Berlusconi viene convocato, quindi, in Purgatorio, dove si riscontrano problemi irrisolti di sovraffollamento di anime, con un incredibile esubero di persone che devono scontare le pene assegnate loro dalla giustizia divina. Anche in Purgatorio – continua il racconto della barzelletta – Berlusconi ha un'idea geniale, per risolvere il problema dell'esubero, e suggerisce di far installare dei termostati ai forni, facendo firmare un contratto alle singole anime purganti affinché accettino l'aumento della temperatura con la contestuale riduzione del periodo di permanenza (per esempio, cinquant'anni al posto di cento, con l'aumento di 20 gradi per la temperatura). Manco a dirlo, anche in questo caso, in soli quindici giorni, Berlusconi risolve il problema del sovraffollamento delle cornici purgatoriali. Grandissimo successo. A questo punto, Silvio Berlusconi viene convocato in Paradiso, per dirimere le rivalità tra santi, beati, angeli e tutte le altre creature angeliche. Anche in Paradiso, Berlusconi, facendo ricorso alla sua incommensurabile esperienza sindacale e di partito, in soli tre giorni risolve la problematica. Visti i brillanti risultati, l'anima di Berlusconi viene convocata dal Padre Eterno, che, normalmente, tiene le sue udienze concedendo alla singola anima non più di un minuto (oltretutto – precisa Berlusconi narratore – il Padre Eterno sa già, conosce già tutto quello che i suoi interlocutori hanno in testa e devono dirgli...). Nel caso dell'udienza concessa a Berlusconi, invece, il tempo trascorso non è quello di un solo minuto canonico, ma occupa ben tre lunghissime ore, suscitando la curiosità di tutte le altre anime del Paradiso, e delle stesse intelligenze angeliche, che si accalcano alla porta dell'ufficio divino, per attendere l'uscita di Berlusconi dall'udienza. Il Padre Eterno, dunque, esce dal suo ufficio, con Silvio che gli appoggia un braccio sulla spalla, e tutti lo sentono pronunciare queste parole:
«Silvio carissimo, questa tua idea è davvero splendida [...] di trasformare il Paradiso in una società per azioni e di quotarla in borsa; c'è una sola cosa che non capisco... perché io dovrei fare il vice-presidente?».
Chi volesse ascoltare la barzelletta di
Berlusconi in Paradiso, raccontata da lui stesso, potrebbe inquadrare e fare click sul seguente
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